Viaggio: fuga o vita?
Sono sempre stato dell’idea, vedendo persone prendere e partire senza meta, che il viaggio fosse una via di fuga, un modo per scappare dai propri obblighi e doveri, l’ultima spiaggia per chi nella vita non era stato in grado di combinare nulla.
Forse le estati dell’adolescenza passate tutte a Como per motivi economici, o la visione lombarda del: ta ghe da lavurà barbun, qualche segno lo avevano lasciato.
In ogni caso ero granitico: scappano, scappano tutti da ciò che sono e che non vorrebbero essere, o da ciò che hanno e non vorrebbero avere.
Finchè un giorno ho preso e sono andato in Giappone una settima, si solo una settimana e tutto il vecchio incrollabile dogma è svanito. Mi si è aperto un mondo, o meglio il mondo.
Dall’altra parte del globo: tutto così uguale, eppur diverso; mi sono sentito forse a torto, per la prima volta viaggiatore e non turista. E capisci entrando in quella dimensione, quanto robotici siamo diventati. Passano i giorni e ti riscopri, ti rivedi umano, vivo, fatto di pelle, pensieri e desideri, sete di conoscenza, curiosità, cordialità naturale che riappare.
Partire non è la panacea di ogni male, ma il viaggio è potente e ti fa capire che la grotta di Platone o la Matrix è lì ed esiste.
Il viaggio finisce quando, tornado all’inizio del post, vuoi fuggire. Allora non ha senso, è solo uno spostarsi fisico da un punto A ad un punto B, la Matrix è ovunque e prima di tutto dentro di te.
Tornando dal Giappone mi sono ricordato più chiaramente di ciò che sono e ho capito meglio ciò che non voglio essere e che per scappare e per fuggire basta andare a Riccione (se proprio ci si vuole spostare fisicamente).
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